Fiaba: Il mostro della caverna
Nel buio e nel
freddo di quell’antro profondo, scavato nella parete di un’antica montagna,
potevano udirsi di tanto in tanto, strani suoni gravi e vibranti, quasi lamenti
indistinti e confusi che aumentavano specialmente di notte, mentre di giorno,
si perdevano nei rumori della natura mescolandosi al cinguettio degli uccelli o
al verso di qualche animale selvatico. Gli abitanti dei villaggi che sorgevano
ai piedi di quella montagna, ben si guardavano dall’avvicinarsi a quella
caverna, convinti che all’interno ci vivesse un essere mostruoso, divoratore di
carne umana, dalle fauci larghe e schiumose e i denti acuminati, dagli arti
robusti e pelosi e le unghie taglienti, tant’è che quei lamenti notturni, secondo
molte persone, altro non erano che urla di dolore che il mostro emetteva
ferendosi da solo proprio con quelle unghie, ogni volta che si grattava il capo
o il volto o qualsiasi parte del corpo.
Le madri
impedivano ai propri figlioli di andare a giocare in quel bosco, i mariti impedivano
alle mogli di raccogliervi frutti o fiori, le mogli impedivano ai mariti di
andarvi a caccia, perché tutti, proprio tutti, senza distinzione d’età o di
rango, erano accomunati dalla stessa tremenda paura per la misteriosa e
orribile creatura.
Nel villaggio di
Serenvita, a poche miglia dalla montagna, in una casetta modesta costruita in
legno di faggi sulle sponde di un fiumiciattolo, viveva la famiglia
Cuorleggero. Il capofamiglia era un umile falegname, da tutti conosciuto come
Mastro Gianni, che trascorreva ogni giorno della sua vita con l’ascia in mano,
a spezzar tronchi, piallarli e forgiarli nella sua botteguccia per ricavarne mobiletti,
seggiole o altre suppellettili domestiche da vendere in piazza alla domenica o
durante qualche fiera di paese.
Sua moglie Donna Erminia, era una casalinga
faccendiera, molto abile non solo a sbrigare i lavori di casa, ma anche ad
aiutare suo marito nella gestione del danaro. Era lei infatti, che ogni
settimana, riempiva un vecchio calzino di lana nascosto sotto il loro
giaciglio, con i risparmi accumulati giornalmente, e lo faceva con cura e
ossessione pensando al momento in cui sarebbe avvenuta la loro scalata sociale.
La coppia aveva due figli quasi adolescenti, Rinaldo e Iolanda, due bellissimi
fratelli gemelli, un po’ ribelli e spesso disobbedienti, con poca voglia di
seguire le lezioni di scuola e tanta voglia di andare in giro alla scoperta del
mondo. Era soprattutto Rinaldo ad incitare sua sorella ad un’impresa a dir poco
eroica:
«Iolanda, dobbiamo
andare nel bosco e scoprire cosa si nasconde in quella grotta nella montagna.
E’ da quando siamo nati che ci raccontano quella ridicola storia del mostro
della caverna, ma finché non sarò io stesso a vedere quella creatura con i miei
occhi, continuerò a non crederci!»
«Oh fratello mio! Ti prego, non pronunciare simili corbellerie! Non possiamo recarci in quel luogo
maledetto. E’ pericoloso! Nostra madre ce lo ripete da anni!»
Benché Iolanda,
spaventata a morte dagli intenti del fratello, cercasse di dissuaderlo dal suo
piano pericoloso, né alcuna supplica né alcun discorso, valsero a fargli
cambiare idea. Rinaldo era un vero testardo, ormai s’era messo in testa quel
pensiero e già pianificava il giorno della sua realizzazione:
«Se tu non vuoi
venire con me, allora andrò da solo. Non ho certo paura di una sciocca leggenda
per bambini!» esclamò a sua sorella, sempre più impaurita e disperata.
Tuttavia, alla fine Iolanda decise di restare unita a Rinaldo, in nome del loro
legame di sangue, ed insieme iniziarono a pensare al quando e al come
raggiungere l’antro nella montagna.
Nel
bosco il buio era calato come un pesante sipario di velluto dopo uno spettacolo
di suoni, luci e colori. L’aria s’era fatta gelida e molti animali notturni
cercavano riparo in piccoli anfratti di roccia o in fori all’interno di grossi
tronchi d’albero. Tra gli arbusti frondosi delle querce, si intravedevano di
tanto in tanto, piccoli occhietti luminosi un po’ inquietanti, quelli delle
civette e di altri uccelli rapaci, che con il loro verso intermittente, scandivano
il trascorrere delle ore in un’atmosfera a dir poco spettrale.
Dall’antro
maledetto, fuoriuscivano nuvole di vapore, una sorta di nebbia calda e scura
dall’odore acre. Era l’alito del mostro. E poi ancora quei lamenti, gemiti e
guaiti come di bestia sofferente; a volte quei suoni erano interrotti da
grugniti striduli e nasali che lasciavano pensare ad un grosso cinghiale
morente, a volte, erano percettibili colpi di tosse grassa, come di chi, avesse
contratto il vaiolo o la peste e non avesse alcuna possibilità di guarigione. Qualcuno
c’era, lì dentro. O forse qualcosa. Da quanto tempo, non era dato saperlo. Ma
una cosa era certa: gli anni passavano e quella creatura non cessava di emettere
versi e singhiozzi.
Un pomeriggio,
per le stradine del villaggio di Serenvita, si poterono udire urla disperate di
una povera madre che chiamava a gran voce la propria figliola, scomparsa ormai
da diverse ore. Le urla attirarono l’attenzione di tutti gli abitanti del
villaggio ed anche di Rinaldo.
Dov’era sparita
quella figliola di nome Dorotea? In molti s’avvicinarono alla madre avvilita in
cerca di chiarimenti ed ella spiegò che la bambina, disobbedendo agli ordini di
suo padre, s’era allontanata nel bosco alla ricerca del suo cagnolino ma,
ahimè, non ne era più tornata.
«La mia povera
Dorotea, sarà stata divorata dal mostro della caverna, lo so!»
urlava disperata
la donna piangendo e dimenandosi come morsa da una tarantola. Tutti attorno
alla donna, cercavano di placarla ma, allo stesso tempo, in cuor loro aumentava
il terrore e persino il desiderio di raccogliere baracche e burattini e fuggire
altrove, il più lontano possibile da quel luogo funesto. Rinaldo invece, più
assisteva a quella scena straziante, più ardeva dalla smania di addentrarsi nel
bosco, raggiungere la caverna e affrontare il mostro. Lui e Iolanda,
all’indomani, si sarebbero svegliati di buon ora e, all’insaputa dei loro
genitori, avrebbero imboccato l’angusto sentiero di foglie d’acacia che
conduceva nel cuore del bosco.
E così fu.
I due incauti
fratelli, sgattaiolando dalla finestra della loro stanzetta, mano nella mano
camminarono per quasi due ore attraversando viottoli impervi, sentieri tortuosi
e torrenti in piena che tagliavano il loro percorso. Intanto il sole faceva
capolino e tutto intorno iniziava a colorarsi di verde e marrone, giallo e azzurro, ocra e arancione, i colori
autunnali della natura che si risvegliava dal sonno notturno.
Dopo una breve
pausa per ripigliar fiato e raccogliere qualche castagna dal suolo, i due
ripresero il cammino di buona lena e finalmente, giunsero al traguardo:
l’ingresso di quella cavità rocciosa tanto temuta e tanto evitata da qualsiasi
essere umano.
Con il cuore in
gola e il respiro tenuto a freno, fu Rinaldo il primo a varcare la soglia della
grotta oscura. Iolanda vi sarebbe entrata solo dopo un segnale di suo fratello
che avrebbe significato assenza di pericolo. In caso contrario, Rinaldo sarebbe
uscito di fretta e i due sarebbero corsi via lontano di lì per sempre. Era
stata questa la promessa che s’erano fatti vicendevolmente. La ragazzina
tremava di terrore fuori dall’antro e di tanto in tanto con voce fioca
esclamava: «Rinaldo, tutto bene? Dimmi qualcosa fratello mio, non farmi star in
pena!» E il ragazzo prontamente rispondeva che la situazione era sotto
controllo e che lì dentro, come aveva sospettato da sempre, non v’era alcunché
di mostruoso. E la sua voce echeggiava sempre più man mano che si inoltrava
nell’anfratto profondo.
Passarono altri dieci minuti: «Rinaldo, tutto bene?
Dimmi qualcosa fratello mio, non farmi star in pena!» ripeté Iolanda ma,
stavolta, non ricevette risposta. La fanciulla incalzò la domanda: «Rinaldo,
tutto bene?» Silenzio assoluto. La ragazza già pensava al peggio ed era pronta
a chiedere aiuto a qualcuno quando d’improvviso, udì una voce provenire dalle
viscere della grotta: «Sto bene Iolanda, sto finalmente bene. Ma, ti prego,
entra anche tu, fallo in nome del nostro legame di sangue!» Iolanda non capì. O
meglio, il messaggio le era stato chiaro ma, quella voce non era di suo
fratello Rinaldo.
Era una voce femminile, soave, squillante, acuta come solo la
voce di una giovine donna avrebbe potuto essere. Che fosse impazzito Rinaldo?
«Non fare lo sciocco fratello mio, non è il momento di farti burle di me! Esci
immediatamente di qui e andiamo via!» urlò spazientita Iolanda. Ma Rinaldo
tacque e non venne fuori. Lo sgomento prese il sopravvento su Iolanda e fu a
quel punto che la ragazza decise di scappar via, tornare al villaggio di Serenvita
e raccontare tutto ai suoi genitori. Nella corsa di ritorno, le venne in mente
la piccola Dorotea, la bambina scomparsa il giorno prima nel bosco. Non poteva
che essere sua quella voce sottile proveniente dalla caverna. Il mostro l’aveva
catturata davvero e, ahimè, aveva catturato anche Rinaldo!
Iolanda, dopo
altre due ore di corsa a gambe levate, arrivò trafelata al villaggio. Aveva una
gran paura di rivelare il guaio in cui s’erano cacciati lei e suo fratello ma,
al contempo, era ansiosa di dire a tutti che quella ragazzina di nome Dorotea
era ancora viva. E invece, sulla stradina per la piazza del mercato, assisté ad
una scena inaspettata: donne, uomini e bambini, facevano festa e danzavano
giulivi attorno ad una fanciulla dai riccioli dorati e gli occhi color del
cielo. Era Dorotea! La sua mamma l’aveva ritrovata dietro una siepe mentre
piangeva dopo esser inciampata su un fascio di rami secchi. Tale fu lo stupore
e lo sbigottimento di Iolanda per aver visto quella ragazzina sana e salva al
villaggio che, perse i sensi e svenne supina sul selciato. Si risvegliò poco
dopo nel caldo giaciglio della sua stanza con le mani strette a quelle di sua
madre, Donna Erminia.
«Oh figliola benedetta, cosa t’è capitato e dove si trova
tuo fratello?» domandò in ansia la donna. Fu allora che con le lacrime agli
occhi, Iolanda riferì per filo e per segno tutto l’accaduto a sua madre,
compreso il mistero di quella delicata voce femminile proveniente dalla caverna
del mostro.
Donna Erminia, a
sentir tali parole, impallidì come statua di cera, si irrigidì a guisa di
tronco e, lasciando Iolanda nella sua cameretta sotto la coperta di lana,
raggiunse suo marito nel tinello.
«Pezzo di un
idiota, questi due ragazzini impertinenti e sin troppo curiosi, hanno
oltrepassato il limite! Adesso, zucca vuota che non sei altro, va’ alla ricerca
di quel moccioso di Rinaldo altrimenti…sarà la fine! Va’ nel bosco alla
svelta!»
A questo punto,
il lettore più accorto si chiederà cosa stia accadendo e perché Donna Erminia
abbia parlato con tanto spregio a suo marito. Per capire, dobbiamo tornare
indietro nel tempo di circa dodici anni. All’epoca Mastro Gianni, artigiano
laborioso che tutti avevano in gran considerazione, era unito ad un’altra
donna, a nome Eco, una splendida e giovine fanciulla dai capelli lunghi e neri
come more mature, mossi e ribelli come onde del mare, occhi dolci e sorriso sempre impresso su un viso puro e
bianco latte.
I due s’amavano tanto e da quell’amore nacquero ben presto due
gemellini, un bambino e una bambina, che chiamarono Rinaldo, come il prode
paladino di Carlo Magno, e Iolanda come la famosa principessa d’Aragona. La
famigliola viveva felice e spensierata nel villaggio di Serenvita, tenuta però,
continuamente a vista, da Erminia, una ragazza del medesimo villaggio che
bruciava d’invidia nei confronti di Eco, molto più giovane e più bella di lei.
Erminia non trascorreva giorno senza maledire quella fanciulla e quella
famiglia, desiderosa com’era di poter trovare anche lei marito e far fortuna
coi danari. Erminia non era solo brutta, ma aveva un animo cattivo, col suo
fare disonesto causava liti tra la gente, a volte rubava al mercato e
nascondeva la refurtiva in una stalla sotto covoni di paglia, dove tra l’altro,
dormiva anche lei.
Ma la crudeltà di Erminia non si placò mai. Un giorno, la
donna decise di recarsi nel bosco e chiedere aiuto a Porfiria, la strega
malvagia del sottobosco che viveva nascosta nelle viscere della terra tra ratti
velenosi e viscidi serpenti. Scongiurò la strega di aiutarla a conquistare
Mastro Gianni e a togliere di mezzo sua moglie Eco, cosi che potesse finalmente
maritarsi con lui e avere anche lei una famiglia. Porfiria l’ascoltò e decise
di esaudire questo suo desiderio: «Nulla di più facile mi chiedi, Erminia! Per
placare la tua invidia e il tuo odio per Eco e sbarazzarti di lei, dovrai fare
in modo che ella si rechi nel bosco, beva rugiada di acacia e al resto ci
penserò io. Ma attenta, se un giorno, anche solo uno dei due figli di Eco,
dovesse ritrovarla, per te non ci sarà scampo alcuno, verrò a catturarti io
stessa e diverrai pasto succulento per i miei topi e i miei serpenti. Accetti
la proposta?»
Erminia non
esitò ad accettare, disposta a mettere a repentaglio la sua stessa vita pur di
raggiungere i suoi loschi scopi. Fu così che un giorno di inizio estate,
andando incontro ad Eco, la invitò a raccogliere fiori di camomilla nel bosco
assieme a lei; Eco, ingenua e benevola verso qualsiasi essere del creato,
decise di accompagnarla di buon grado approfittando anche della splendida
giornata di sole. Dopo qualche ora, la calura estiva provocò in Eco una gran
sete e a quel punto Erminia, invece di attingere acqua da qualche torrente,
offrì ad Eco una piccola bisaccia colma di rugiada d’acacia, riempita di
nascosto il giorno prima. Eco, assetata, la bevve tutta d’un sorso appagando
avidamente la sua gran sete. Di lì a poco però, la fanciulla iniziò ad avere
spossatezza e sfinimento finché s’accasciò dolcemente sul terriccio in un sonno
profondo. A quel punto Erminia, seguendo le istruzioni della strega Porfiria,
scappò via, tornò al villaggio e da quel giorno di Eco non s’ebbe più notizia
né traccia alcuna.
Mastro
Gianni si disperò per giorni e notti credendo che la sua dolcissima moglie
fosse stata sbranata da qualche lupo, e così si ritrovò completamente solo con
a carico due figlioli ancora molto piccoli. Quando l’angoscia lasciò il posto
alla rassegnazione, l’uomo cedette alle lusinghe e al corteggiamento della
crudele Erminia, la sposò dopo pochi mesi e si rifece una famiglia. Il suo
animo però, resto cupo e l’unico motivo di vita per lui, restarono i suoi due
figlioli.
Torniamo ora
alla storia attuale. Mastro Gianni, preoccupato del destino di suo figlio
Rinaldo, si precipitò nel bosco e risalì il sentiero d’acacia fino all’ingresso
della caverna del mostro. Ma una volta sopraggiunto in quel luogo tanto
paventato da tutti, fu enorme la sorpresa che gli apparve dinanzi agli occhi: dall’ingresso della spelonca vide
sbucare il suo amato figliolo mano nella mano con Eco, la sua prima ed unica
vera moglie. L’emozione fu enorme, il pianto di gioia incessante, l’entusiasmo
alle stelle. I tre si abbracciarono forte e ringraziarono il cielo del miracolo
avvenuto. Eco allora, raccontò tutta la storia a suo marito, a come Erminia dodici
anni prima, l’avesse ingannata e all’incantesimo malefico della strega che
l’aveva rinchiusa in quell’antro buio e freddo trasformandola in una creatura
deforme e abominevole. Quei gemiti e lamenti, quei grugniti spaventosi che la
povera Eco emetteva ogni notte, erano in verità, richieste d’aiuto ai suoi
stessi figli affinché la trovassero e andassero a liberarla.
Mastro Gianni,
Eco e Rinaldo corsero assieme verso il villaggio di Serenvita temendo che
Erminia potesse far del male a Iolanda, ma, quando arrivarono, trovarono solo
la piccola Iolanda, ancora coricata sul suo giaciglio di paglia. Erminia era
sparita. S’era già avverato il sortilegio della strega Porfiria: non appena Eco
aveva messo piede fuori dalla grotta,
Erminia era stata catturata da due grossi
uccellacci rapaci e portata via lontano fin nelle viscere della terra.
Da quel giorno
la famiglia Cuorleggero tornò ad essere unita nel suo autentico legame, visse
per molti anni nel villaggio di Serenvita conducendo uno stile di vita frugale
e godendo delle gioie del reciproco e sincero amore.
Mara Tribuzio
Racconto selezionato nel concorso letterario Fiabe e Favole 2017 a cura di Historica Edizioni e pubblicato in un'antologia di fiabe che sarà presentata il giorno 18 marzo 2018 presso la libreria Cultora a Roma.
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