"Il bene mio" recensione
Data di uscita: 5 settembre 2018
Chi è Elia?
E’ un uomo totalmente innamorato
della sua terra come lo è di sua moglie e come sempre lo sarà anche quando quest'ultima si farà alito di vento, brivido addosso, abbraccio avvolgente nei sogni di Elia.
Quello che Elia trasuda è un
attaccamento alle proprie origini, ai propri natali ma anche alle proprie
ceneri.
E sono proprio la cenere e la
polvere a dominare la scena, in questo
meraviglioso film intitolato “Il bene mio” del regista (e soprattutto caro
amico) Pippo Mezzapesa.
Caro Pippo (mi concedo una
parentesi di dialogo diretto con l’autore), in questa pellicola sei riuscito persino
a dar
voce alla polvere, alla sua forza di gravità che risucchia verso il
basso (“eccome se si sente…”), ai crolli e al dolore che questi ultimi possono
provocare quando sotterrano la vita.
Ieri al cinema, uscendo dalla
sala, origliavo i commenti degli spettatori affianco e dietro me. Quasi tutti
con le lacrime agli occhi dicevano : “Bellissimo, mi ha commosso”.
Ed è stato così anche per me. La
storia di Elia, interpretata da un sublime Sergio Rubini, ha smosso emozioni,
ricordi, nostalgie, dolore ma anche voglia di conservare e custodire la nostra
memoria storica.
Il film si ispira ad un triste
evento realmente accaduto (di cui non parlerò) causato da un terribile
sisma in un piccolo paesino rurale che, nella pellicola di Pippo, si chiama
Provvidenza. Ed anche la scelta di questo
nome non è casuale. Se da un lato questa parola ci rimanda all’ideale
manzoniano di provvidenza quale “benedizione”, “mano di Dio”, dall’altro, essa stride nelle
nostre orecchie quale beffa e ci spinge a chiederci dove sia, o sia andato a
finire, l’aiuto di Dio o il cristiano premio finale dinanzi al crollo di quel paesino e delle speranze
future di donne, uomini e soprattutto bambini, che non hanno avuto la possibilità nè il tempo di crescere.
Ma sarà proprio Elia, con il suo
profondo Amore per quella terra brulla, con la sua generosa gelosia (è un
ossimoro efficacissimo a mio avviso) per quelle strade inerpicate alla roccia,
i suoni e i profumi che esse ancora sprigionano, a spiegarci il significato profondo della parola Provvidenza:
continuare a credere e ad avere il coraggio di guardare avanti senza
dimenticarsi, però, di voltarsi indietro, al passato che ci appartiene, che parla di noi, che ci rende più umani, più consapevoli e sereni.
C’è chi al dolore reagisce con la
volontà di dimenticare, spazzare via tutto, murare il ricordo con calce e
pietre di tufo, “fottersene” di tutto e tutti e continuare a vivere. E c’è
invece Elia che per continuare a vivere, ha bisogno di ricordare, urlare a gran
voce “sei tu? Dimmelo!”, abbattere a mani nude il muro dell’oblio.
E soprattutto ha bisogno di
conservare i ricordi all’interno di oggetti, cianfrusaglie che per molti
non hanno alcun valore, ma che invece, per Elia, intento a trasportarli nel suo
carrello del “guadagno” e non “della spesa”, sono preziose testimonianze di
vita, di identità, di appartenenza ad una comunità, ad una famiglia che vive
ancora nella sua memoria del cuore.
Poetica la scena della folata di
vento che soffia in aria i disegni di alcuni piccoli alunni, quasi a spargere
sorrisi colorati per combattere la desolazione circostante. E poi c’è un altro
sorriso che non si vede nel film perché nascosto…forse sotto un banco, ma incancellabile nella sua fuggevolezza e brevità, ed è in quell’immagine che lo spettatore coglierà l’intero intento dell’opera
di Pippo.
Vorrei scrivere molto e molto di
più, ma il desiderio di inculcare nei lettori di questa pagina la curiosità di
andare al cinema a guardare “Il bene mio”, è più forte della mia tentazione di
parlarne.
Consigliato? Assolutamente sì.
E tra i motivi (moltissimi), vi è il lirismo delle scelte musicali,
sceniche, paesaggistiche, ci sono i dialoghi, la cadenza e l’accento di Sergio
Rubini, Dino Abbrescia, Teresa Saponangelo, Francesco De Vito e di tutti gli
altri attori e comparse, che risuonano piacevolmente familiari a noi pugliesi e
ci fanno avvertire ancora di più quel BENE e quella vicinanza affettiva ai personaggi,
e soprattutto quel senso di reale appartenenza ad una terra meravigliosa e
antica.
"Antico" non è sempre sinonimo
di superato e rottamabile.
Questo film ci insegna che il passato non si può e non si deve cancellare perché ci serve a rinnovare noi stessi, dare un senso al presente, ripercorrere con maggiore maturità sentieri già percorsi.
Lodi a Pippo e ad Antonella Gaeta
e a tutto il cast per questa preziosa opera.
Mara Tribuzio
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