Leggenda barese
La càp du Tùrk (la testa del
Turco).
«Questa terra mi piace molto!»
esclamò Mufarrag alla sua banda di pirati saraceni sbarcati da poco sulle coste
pugliesi. Quel mattino, dopo aver lottato contro correnti sfavorevoli e aver
rischiato l’ammutinamento dei suoi uomini, affamati e provati dalla lunga
navigazione, finalmente il sultano Mufarrag era approdato a Bari . Dinanzi ai
suoi occhi si stagliava un paesaggio mai visto prima. Il mare incorniciava un
fazzoletto di terra ricca di vegetazione, prevalentemente ulivi e mandorli,
abitata per lo più da pescatori che, a bordo delle proprie barchette di legno,
immergevano in acqua e ritiravano con ritmo cadenzato, reti colme di pesce
azzurro e di altri frutti del mare. Sullo sfondo di questa tela paesaggistica,
si ergevano le mura della città, diversi castelli e fortini merlati che
proteggevano fitti borghi abbelliti da piazze, monumenti e pavimentazioni
lastricate in pietre di marmo.
E più guardava quel paesaggio,
più cresceva in Mufarrag la smania di appropriarsi di Bari, esserne investito a
governatore legittimo e convertire quel popolo alla religione musulmana,
costruendo una grande moschea e introducendo la pratica della pubblica
preghiera del venerdì. Grandi
aspirazioni territoriali e politiche che, però, dovettero scontrarsi con la
determinazione e il coraggio, oltreché la scaltrezza, del popolo barese.
La notte stessa successiva
allo sbarco, Mufarrag ordinò ai suoi uomini di perlustrare la zona non
impedendo, di certo, razzie di cibo e ricchezze, cui i saraceni erano avvezzi
ogni qual volta facevano incursioni in terre straniere. Essi penetrarono nel
cuore della città attraverso i cunicoli delle fogne sorprendendo nel sonno gli
ignari baresi.
All’indomani del saccheggio,
l’emiro Mufarrag organizzò una sorta di raduno nella piazza antistante il Duomo
di San Nicola. Per l’occasione si tirò a lustro: indossò una tunica in raffinato
lino rosso che gli copriva le ginocchia, con una scollatura a punta sul
davanti; sopra la tunica s’era infilato una guarnacca, una sopra veste color porpora con maniche lunghe e con uno
spacco sotto i gomiti, tenuta stretta in vita da una cintura di metallo lucido; sotto la tunica l’uomo indossò delle brache in pregiato fustagno color giallo fulvo; sulla testa
un copricapo a punta avvolto da una striscia di tessuto damascato di fantasioso
ordito. Tutto era pronto per il suo esordio quale nuovo governatore della
città. Così parlò dinanzi ai baresi raccoltisi attorno a lui e incuriositi da
quello stravagante quanto misterioso figuro:
«Popolo dell’Adriatico, mi
presento al vostro cospetto, mi chiamo Mufarrag e la mia terra di origine è
Baghdad. La vostra cittadina è davvero graziosa e prospera, ma sono certo che
con me a capo, Bari potrà splendere ancor di più. La adornerò di opere e
palazzi, e a voi insegnerò le tecniche più avanzate per lo sviluppo dei
traffici marittimi; diverrete esperti nell’arte dell’edilizia e nella musica,
imparerete a vestire con indumenti
orientali usando tessuti di pregiata fattura. Nelle scuole introdurrò lo studio
della lingua araba in modo che i vostri figli possano un giorno viaggiare in
medio oriente senza ostacoli e operare scambi commerciali con i loro fratelli
saraceni, in pace e serenità. E’ per tutti questi motivi che mi investo
ufficialmente della carica di califfo di Bari!»
I baresi in prima fila che
avevano udito questo discorso, tradotto in un italiano maccheronico da un
vecchio saraceno che affiancava Mufarrag sul podio, inizialmente rimasero
increduli. Poi cercarono di spiegare la situazione ai concittadini recatisi tardivamente
sul posto. Finché arrivò il governatore bizantino di Bari che, impavido dinanzi
alla prepotenza di quello sbruffone, prese a sua volta la parola:
«Illustrissimo Signore, parlerò
a nome del popolo barese. Vi ringrazio per il vostro apprezzamento e per i
complimenti rivolti a questa terra, ma dubito riuscirete a stravolgere o
adombrare la cultura classica e le origini greco-latine di questo popolo
imponendo con coercizione altri usi e altri credo. I baresi ve lo impediranno
combattendo a mani nude. Ragion per cui, raccogliete i vostri pirati e tornate
nelle vostre terre, in nome di Dio!»
Mufarrag non parve affatto
turbato dall’intervento di quell’italo-bizantino, anzi, ne trasse spunto per
rincarare la dose della sua prepotenza. Ordinò ai suoi uomini di occupare la
città e di abbattere, ove fosse presente, ogni traccia materiale, monumentale,
iconografica di cristianità.
Ma, d’improvviso, tra la folla, si fece avanti un
vecchietto canuto e sdentato. Indossava pantaloni di panno marrone, una giacca
di velluto a costine, un berretto di lana in testa e vecchie scarpe di cuoio con lacci di spago. Era un pescatore dalla pelle scura e asciugata
dal sole. Costui, rivolgendosi al califfo Mufarrag, esclamò a gran voce: «Ci a
Bær vù stæ’, c la Befæn apprìm ta la dà vdæ’»[1]
Che storia era mai questa? E
chi era questa Befana? In breve tempo a Mufarrag fu spiegato che c’era una
notte in particolare, quella tra il 5 e il 6 gennaio di ogni anno, in cui l’intera
città di Bari era terrorizzata dai crimini efferati di un essere mostruoso che
appariva in pubblico sotto le sembianze di una vecchiaccia. Si trattava di Befanì,
la Befana cattiva, sorella di quella buona e amica dei bambini. Befanì era
solita aggirarsi solo quella notte, per i vicoli e le stradine della città
seminando presagi di morte e uccidendo di persona i poveri malcapitati. Con un
uncino acuminato nella mano destra, contrassegnava con una croce funesta le
porte delle abitazioni di coloro che sarebbero morti nell’arco di quell’anno,
mentre nella mano sinistra teneva una falce con cui decapitava chiunque
incontrasse lungo il suo cammino. Insomma, un fiume di sterminio in piena. Per
questo motivo, i baresi ben si guardavano dall’uscire in strada la notte del 5
gennaio. Si barricavano, al contrario, nelle proprie case e nei sottani,
cercando di non fare alcun rumore che potesse attirare Befanì e invogliarla a
lanciare maledizioni fatali.
Mufarrag ad udire quella
storia, scoppiò in una lunga e grassa risata sbellicandosi senza contegno: «Voi
italici siete davvero dei creduloni! Perdete tempo prezioso a tramandarvi
simili leggende e nel trastullo della fantasia, dimenticate di lavorare e di
occuparvi di faccende più serie. Non riuscirete ad impedirmi di conquistare
questa terra incutendomi terrore con storielle per infanti! Ahahaha! Ahahah!
Ridicoli! E ricordate che, se davvero c’è qualcuno che qui sa utilizzare la
falce per decapitare un nemico, quello sono io ed io soltanto! Ahahah! Ahahah!»
«Rìd, rìd mò…ca po’, abbùn
abbùn, kedda càp avà cadè ndèrr a
chiùmm!»[2]. Furono
queste le parole di congedo del vecchio pescatore barese, quasi una maledizione
lanciata sull’invasore, mentre costui e tutta la sua squadra di corsari
saraceni lasciava la piazza del duomo e si allontanava dalla folla incredula e
allo stesso tempo, angosciata.
Trascorsero giorni lunghi e
tristi per il popolo barese succube dei capricci e delle imposizioni del nuovo
dittatore che già aveva iniziato a trasformare a proprio gusto gli edifici e le
opere pubbliche della città.
Ma di lì a poco, arrivò la fatidica data del 5
gennaio. Come da usanza, i baresi abbandonarono le strade e le piazze e si
rinchiusero nelle proprie dimore, nonostante il divieto di Mufarrag, che alla
storia della Befana cattiva, non aveva creduto neanche per un attimo. Tant’è
che quella notte, l’incauto califfo decise di passeggiare per il borgo antico
di Bari fischiettando con fare impudente e canzonando persino il personaggio,
per lui fiabesco, di Befanì:
«Allora vecchiaccia, dove ti nascondi? Non
avrai mica paura di me? Forse hai deciso di non uscire questa notte a causa dei
tuoi reumatismi? O sarai già morta, presa da spavento nel guardarti allo
specchio? Vieni fuori, cercherò di arginare la tua orribile cera con un po’
della mia cipria o con altri unguenti di bellezza che ho portato dall’Oriente.
Certo, non possono far miracoli, ma potrebbero colmare qualche fessura della
tua orrenda pelle grinzosa! Ahahahaha!». Parlava a voce alta Mufarrag per farsi
udire dai baresi barricatisi in casa e dimostrare loro che la Befana della
morte, era pura invenzione. Poi, d’improvviso, il silenzio.
Da una corte buia e stretta,
Mufarrag intravide una luce fioca avanzare lentamente nella sua direzione. Pian
piano quella luce proiettò sul lastricato un’ombra strana, allungata e tremante.
Poi l’ombra prese una forma più definita e infine, accorciandosi di colpo,
scomparve lasciando al suo posto la sagoma
fisica di un essere terrificante. Mufarrag sgranò gli occhi e per
qualche istante restò quasi paralizzato. Era una vecchia smunta, pelle ed ossa,
vestita di nero con una gonna lunga terminante con un pesante strascico. Sul
capo dell’anziana donna si ergevano tre candele accese, sospese nell’aria; le
mani grinzose e dalle lunghe unghie annerite, sorreggevano un pesante attrezzo
acuminato che gocciolava di un liquido denso, filamentoso e scuro. Ai piedi
della vecchia si era infatti formata una pozza rossastra che si allargava a
macchia d’olio. Ma, ahimè, olio non era, bensì sangue. Sangue di qualche
vittima imprudente che non s’era messa al riparo quella notte. Mufarrag
raggelò. Non poté credere ai suoi occhi. La lingua gli si intrecciò in bocca e
non riuscì a pronunciare neanche una parola.
«Bene bene, noto con piacere
che c’è qualche altra testa da far saltare in questa lunga notte. Temevo di
annoiarmi e invece…». La vecchia Befanì non terminò nemmeno quella frase che,
con un movimento deciso e perfettamente mirato, sgozzò Mufarrag con la falce
facendo capitombolare la sua testa al suolo. Essa rotolò per diversi metri per i vicoli e le corti della città vecchia,
fino a conficcarsi nell'architrave di una casa.
La vecchia Befana malvagia, soddisfatta di questo suo ennesimo delitto,
si allontanò dal corpo cimato del califfo, che continuava a schiumare sangue
caldo sulle lastre di marmo tingendo di rosso e di morte il piccolo vicolo.
Quando fu l’alba, il cadavere mozzato del califfo fu rinvenuto da alcuni
passanti, i quali, con urla miste di disgusto e di gioia, annunciarono a gran
voce che il Turco era morto e che Bari
era di nuovo libera. Per l’occasione, la città organizzò una gran festa con
danze, musicanti, bancarelle colme di focacce, panzerotti e sgagliozze[3].
Il corpo del Turco fu dato alle fiamme ed i suoi uomini scacciati in men che
non si dica sotto le minacce di pescatori baresi inferociti ed armati di
bastoni e fiocine taglienti. Il nemico non c’era più ma, che fine aveva fatto
la sua testa? L’intera cittadinanza si mise alla ricerca di quel cranio
perlustrando in lungo e in largo ogni angolo del borgo antico. Fu persino messo
in palio un premio in danaro per colui che fosse riuscito a trovarlo. Passarono
due giorni e finalmente, un ragazzino che giocava per strada con i suoi amici
ad acchiapparella, scorse quel capo dai folti baffi ancor sudicio di sangue,
conficcato nel muro di un’abitazione. Si trattava dell’architrave di una dimora
sita in Strada Quercia. Il governatore bizantino ordinò immediatamente, non
soltanto la rimozione della testa da quel muro, ma anche l’abbattimento senza
indugi dell’intero stabile:
«Cari concittadini, credo si renda necessaria la demolizione di questa
casa per cancellare definitivamente ogni traccia dello spirito malvagio e
spietato di quel Turco prepotente che aveva cercato di trasformare la nostra
bellissima e storica città in un emirato arabo. Se tutti voi siete d’accordo,
procederei all’abbattimento». Così parlò il governatore e così avvenne. Al
posto di quella vecchia casa, in breve tempo ne fu costruita un’altra, in
simile ordine architettonico, elegante e perfettamente in linea con lo stile e la forma delle altre abitazioni.
Bari sembrava ormai essersi lasciata alle spalle quella spiacevole
vicenda e quel periodo buio di dominazione saracena. La vita era tornata alla
serenità. I cittadini avevano ripreso a
godersi le proprie abitudini e a
rispettare le tradizioni dei propri antenati. Di notte lungo il molo si
potevano ammirare in lontananza le luci fioche e ondeggianti delle barchette
dei pescatori che fino all’alba,
riempivano le reti di tanto ben di dio. Al mattino la maggior parte del pescato
veniva esposto e venduto ndèr a la lànz[4];
mentre nei vicoletti del borgo antico, donne anziane e giovani allieve
realizzavano a mano orecchiette, taralli, focacce e tante altre leccornie di
pasta fresca.
Una calda mattina d’estate dell’anno 871, un’anziana signora che era
intenta a recarsi in chiesa per la messa domenicale, perse il suo fazzoletto
dal capo a causa di una folata di vento.
La donna si voltò di scatto per rincorrerlo e recuperarlo e
fortunatamente riuscì a non perderlo. Il fazzoletto infatti si incastrò ad un
pezzo di marmo sporgente dal muro di un’abitazione e iniziò a sventolare animatamente
sotto la corrente del vento. La donna cercò di afferrarlo facendo qualche
saltello, ma invano. Poi il fazzoletto cedette ad un soffio più impetuoso e
volò via. Ciò che svelò quel fazzoletto fu a dir poco sorprendente.
La signora quella mattina si trovava in Strada Quercia e il punto in cui
s’era incagliato il suo fazzoletto era proprio l’antico architrave in cui tempo
addietro, s’era conficcato il capo di Mufarrag. Proprio in quel punto spuntava
la testa in pietra di un uomo con baffi e turbante.
Ancora oggi, se vi capita di visitare il borgo antico di Bari, passare
per Strada Quercia e soffermarvi al numero civico 10, potrete imbattervi nel volto
imbronciato e spavaldo di quell’antico califfo saraceno che tanto amò la nostra
città ma, che per la troppa cupidigia e la smania di potere, ci rimise letteralmente
la testa.
Fonti:
Mara Tribuzio
[2]
Traduzione dal vernacolo barese: “Ridi, ridi ora, perché poi all’improvviso,
quella testa cadrà per terra a peso morto!”.
[3] Si
tratta di fette di polenta (prima cotta in acqua) che vengono fritte in
abbondante olio bollente e poi salate.
[4] Il
posto, che letteralmente significa "a terra la lancia" è lo scalo di
alaggio vicino al molo di S.Nicola (porto vecchio di Bari). Qui, ancora oggi,
ogni giorno viene esposto e venduto il pescato quotidiano.
[5] “Madonna
del Carmine! Ma è la testa del Turco!”
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