Recensione al romanzo "Un giorno questo dolore ti sarà utile" di Peter Cameron
Un
giorno questo dolore ti sarà utile
di
Peter Cameron (traduzione italiana di Giuseppina Oneto)
In questa mia nuova
pagina di riflessioni letterarie, vorrei provare a recensire un romanzo che ho
letto in due giorni di viaggio tra treni e aerei. In genere quando viaggio
preferisco portar con me letture più leggere o di svago, ma stavolta non è
stato così.
Sin dall’incipit ho
intuito che doveva trattarsi di una storia “forte”, con un protagonista
altrettanto forte e caparbio, testardo e spigoloso come molti adolescenti, in
effetti, sono. Ho poi scoperto, navigando un po’ in rete, che da questo romanzo
è stato tratto anche l’omonima pellicola “Un giorno questo dolore ti sarà utile”
film del 2011 diretto da Roberto Faenza.
Ora che ho letto il libro, senz’altro guarderò il film!
James
è il nome dell’adolescente in questione, newyorkese doc, figlio di genitori
separati, fratello di Gillian, una ragazza poco più che ventenne, studentessa
universitaria legata sentimentalmente al suo, molto più vecchio e sposato,
professore di “Teoria del linguaggio”.
Da subito si delinea il
profilo di un giovane in piena crisi adolescenziale che odia gran parte di ciò
che lo circonda, a partire dagli adolescenti stessi. Sono innumerevoli le volte
in cui James ribadisce la sua ferma volontà a non iscriversi all’università
perché odia stare assieme ai suoi coetanei,
perché trema alla sola idea di dover trascorrere quattro lunghi anni a contatto
con studenti universitari della sua età,
perché secondo lui è una perdita di tempo e non gli piacerebbe quella gente, non gli piacerebbe vivere
con quei coetanei con cui non crede
di avere molto in comune. Oppure odia l’idea che quell’università non sia stata
una sua personale scelta ma un percorso
obbligato e imposto da genitori che di genitore hanno ben poco.
Ma allora qual è il
sogno, semmai ne abbia uno, di questo giovane ribelle? Qual è il suo più grande
obiettivo ora che ha concluso le scuole? Tra episodi bizzarri e tragi-comici
che si alternano all’interno della sua famiglia allargata e poi nuovamente
“ristretta” a causa dell’instabilità sentimentale di sua madre, sbalzi umorali
che colpiscono una sorella un po’ isterica ai limiti dell’acidità, sfoghi
passionali del compagno e poi subito ex-compagno di sua madre, e il grottesco e
anacronistico narcisismo di un padre che cerca di psicanalizzare in modo per
nulla indolore quel figlio “anormale”, James sgomiterà per farsi spazio e cercare una boccata d’ossigeno sognando di
poter scappare da New York e acquistare una villa nel Kansas.
Il Kansas lo
attrae quale “ermo colle” leopardiano in cui poter vivere una beata solitudine
tra i suoi libri preferiti (Shakespeare e Trollope), la sua musica preferita e
magari, un lavoretto semplice ma gratificante. Persino lavorare in un McDonald’s
sarebbe per lui più allettante dell’asfissiante vita universitaria.
E’ dunque, da quel
mondo di coetanei marchiati tutti “Brown University” ma anche, da quel mondo di
“adulti immaturi” che non ne fanno una buona, che James vorrebbe scappare, dileguarsi, sparire.
Seppur impossibilitata
a leggerlo in lingua originale, anche nella traduzione italiana di Giuseppina Aneto, ho apprezzato moltissimo il lessico secco,
incisivo, energico e talvolta tagliente usato in questo romanzo. Rispecchia
perfettamente lo stato d’animo del giovane James, indeciso su tutto e allo
stesso tempo irremovibile sulle sue posizioni, definitive o transitorie che
siano. A momenti, vien persino voglia di prenderlo a ceffoni per alcune
risposte inappropriate che riesce a dare ai suoi genitori o alla sua
psicoterapeuta, una “paziente” dottoressa alla quale l’importuno e poco
“paziente” James darà del filo da
torcere durante le sue sedute.
L’unica persona che
riuscirà a placare l’ardore ribelle di James sarà Nanette, di cui non vi rivelerò l’identità in questa sede. Sarà
l’esperienza, sarà la calma che è in grado di trasmettergli, sarà il suo non
dargli indicazioni o “istruzioni per l’uso” che James apprezzerà molto, di
questa figura femminile.
Ciò che ho colto da
questa lettura è la condizione psicologica, il disagio e l’inadeguatezza che
migliaia di giovani e adolescenti, manifestano nella società odierna. Si tratta
spesso di ragazzi privi di punti di riferimento perché nati in famiglie prive
di fondamenta. E per fondamenta intendo quello strato solido di legami
affettivi, di motivazioni, di direzioni chiare, o, come dice Alessandro
D’Avenia nel suo “L’Arte di essere fragili”, di OBIETTIVI che fanno da limite naturale all’eccesso.
E cito ancora D’Avenia
(con cui, seppur in uno stile fortemente diverso, Peter Cameron ha toccato
molti aspetti comuni dell’adolescenza) quando afferma che “Adolescenza è questo fuoco che non vuole altro che ardere di passione e
passioni, a volte fino a bruciare se stessa…” quando, appunto, non vi è
nessuno a guidare, direzionare, far strada a quella fiamma.
Nel romanzo di Cameron,
ciò che emerge è uno stravagante quanto triste capovolgimento di ruoli: gli
adulti si comportano da adolescenti e l’adolescente si comporta come se fosse
possibile saltare magicamente la tanto odiosa età adolescenziale per
raggiungere quell’agognata autonomia da “adulto”. Ma, poiché quest’ultima
operazione è impossibile, probabilmente dovranno essere gli adulti, com’è più
naturale che sia, a riafferrare le redini della propria vita, in primis, e poi
afferrare le mani dei giovani per accompagnarli, non certo attraverso cammini
forzati o strade obbligatorie, alla scoperta dei loro interessi e delle loro
passioni lasciando loro la piena libertà di scegliere con maggior criterio.
Perché solo ascoltando i giovani, facendo sentir loro la nostra presenza,
spiegando loro i parametri di scelta più vantaggiosi ed anche quelli meno
vantaggiosi, permettendo loro di sbagliare quando è necessario, dando consigli
che non siano istruzioni o, ancor peggio, imposizioni, possiamo realmente
aiutarli a scoprire se stessi, a trovare le motivazioni, a maturare una propria
coscienza e a superare la noia, la monotonia e la malinconia che sono i veri
mali dell’odierno mondo giovanile.
Unico neo dell’interno
romanzo: il finale. Sembra che la storia sia stata “troncata” di netto con una
cesoia, lasciando in sospeso gli sviluppi della trama, gli esiti delle
esperienze e degli “esperimenti” terapeutici e socio- affettivi del protagonista.
Ho avvertito quasi la volontà di Cameron di dire al lettore… “Ora continua tu
la storia…” come spesso noi docenti proponiamo ai nostri studenti in molti
compiti in classe.
Bè, se così è, rilancio
questo stesso invito a qualche giovane lettore, magari in piena età
adolescenziale, affinché possa continuare, non tanto a immaginare la storia di James, quanto a individuare con
serenità e con il supporto di guide generose d’ascolto, i propri obiettivi e
progetti, cercando di portarli a compimento un passo dopo l’altro, una caduta
dopo l’altra, sempre carico di fiducia in se stesso e nelle relazioni umane. Se
il cammino inizia bene, la direzione verrà da sé…
Ma rigiro lo stesso
invito a noi adulti. I genitori di James potremmo essere noi stessi, potremmo
avere anche noi un figlio adolescente che non si sente abbastanza amato o
abbastanza compreso. Non è semplice, di certo, ricoprire il ruolo di mediatore
tra la vita dei nostri figli e la vita che scorre attorno a loro, ma la nostra assenza
è senz’altro la scelta più errata. Le parole non si sprecano mai nel processo
educativo e quest’ultimo dura per tutta la vita fino ad evolversi in
auto-educazione. Bene, è tempo per noi adulti di auto-educarci ed insegnare ai nostri
figli a fare un giorno altrettanto, non attraverso strumenti materiali, ma
mentali e affettivi.
Dove c’è Amore non c’è mai
smarrimento.
Mara Tribuzio
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