Inghiottiti



Inghiottiti

Quel giorno a scuola faceva molto caldo. Giugno era appena cominciato e l’anno scolastico volgeva al termine. Il piccolo Tommaso era emozionato per l’inizio delle vacanze estive ma, allo stesso tempo, gli dispiaceva lasciare la scuola elementare, i compagni con cui era cresciuto, le dolci maestre che lo avevano seguito in quei memorabili cinque anni e, per un inspiegabile motivo, anche quel banco vuoto affianco al suo. In realtà, quel posto era sempre rimasto vuoto durante tutto il ciclo delle elementari. 

Tommaso aveva sempre pensato che lì avrebbe potuto sedersi qualche bambino che si era iscritto a quella scuola ma che, in seguito, per motivi di famiglia, s’era trasferito altrove. Lo aveva anche immaginato più e più volte: paffuto, pelle chiara come latte, capelli ricci e dorati ed occhi chiari come acqua marina. Sarà stato un principino, chissà, o il figlio di una nobile famiglia, per cui la scuola pubblica non gli si addiceva affatto;  oppure, al contrario, sarà stato il figlio di umili giostranti sempre in giro per il mondo, sempre intento a cambiare classe e compagni. Tommaso non l’avrebbe mai saputo, eppure percepiva, anche quella mattina di inizio giugno, una strana sensazione, una sorta di soffio delicato spirare da quel banco vuoto. Cercava di tornare indietro con i ricordi al suo primo giorno delle elementari per focalizzare nella sua mente l’immagine dei nuovi piccoli compagni, ma non gli veniva in mente nessun altro viso. Probabilmente quel bimbo assente era sempre stato assente, lo aveva inventato lui con la sua fantasia. 
Mentre il piccolo Tommaso si perdeva nei suoi pensieri, entrò in classe la maestra Matilde interrompendo il brusio di sottofondo: «Buongiorno bambini, oggi l’attività che vi propongo è la seguente: con i vostri acquerelli, matite e pastelli  realizzerete un disegno che rappresenta il luogo che avreste sempre voluto visitare ma dove non siete mai riusciti ad andare fino ad ora. Pensate ai vostri desideri, fatevi trasportare dai sogni». 
Il piccolo Tommaso pensava già a qualche luogo impervio dell’Africa sahariana, dove avrebbe potuto montare a cavallo di un grosso elefante, o agli arbusti frondosi della foresta amazzonica a combattere contro grossi serpenti e famelici coccodrilli. Impugnò il suo pennarello come fosse un arpione e iniziò a dar forma al suo combattimento al fianco di Mr Crocodile Dundee.
D’improvviso il pennarello gli cadde di mano. Tommaso si chinò per raccoglierlo ma non lo trovò. Guardò meglio tra i suoi piedi, frugò nella tasca aperta del suo zainetto appeso allo schienale della sua seggiola, ma niente. Si risollevò stranito guardandosi attorno, non riusciva davvero a capire in che modo quel pennarello si fosse “volatilizzato”. Poi voltò lo sguardo alla sua sinistra e raggelò. Il pennarello era riposto su quel banco vuoto, giaceva chiuso con il suo tappo a pressione su un foglio da disegno che non avrebbe potuto, per nessuna ragione al mondo, essere lì. Tommaso, sconcertato e ammutolito, si alzò dal suo posto per recuperare il pennarello ma, quando fu vicino abbastanza per prenderlo, posò lo sguardo su quel foglio. Ci vide abbozzato un disegno. Era raffigurata un’aula di scuola con tutti i banchi allineati, i bambini intenti a scrivere sul proprio quaderno, la maestra in piedi accanto alla cattedra e, sullo sfondo, una grande lavagna di ardesia su cui c’era scritta una breve frase: Il luogo in cui ho sempre sognato di essere è la scuola. Tommaso avvertì una scossa al petto, la paura si impossessò di lui. Non aveva visto altri compagni sedersi a quel posto, né tanto meno disegnare su quel foglio. Poi d’un tratto si calmò, capì che non s’era mai sbagliato e questa consapevolezza gli regalò un sorriso, ma screziato di amarezza. Guardò fuori dalla finestra e intravide in lontananza dei nuvoloni densi che non promettevano bel tempo.


Non lontano dalla scuola si estendeva un vasto campo coltivato a pomodori di proprietà di una nota azienda locale che produceva e confezionava salse, pelati e sughi pronti di ogni tipo. Il paesaggio da lontano appariva un gran lenzuolo orlato di tutte le sfumature di verde, e chiazzato al centro, in modo regolare e quasi geometrico, di macchie rosso vermiglio rettangolari. Erano i cassoni colmi di pomodori appena raccolti e pronti per esser lavorati in fabbrica. Le superfici di quei frutti maturi e gonfi di bontà, luccicavano al sole ed emanavano un profumo polveroso di terra bagnata, ma anche l’odore acre di nodose mani sudate. 


Quella mattina al lavoro erano in quattro: Lorenzo, Vittorio, Carmine e Michele, quattro giovani manovali italiani che da anni si svegliavano alle tre del mattino, raggiungevano i campi e vi restavano chini ore ed ore a raccogliere pomodori e riporli nei cassoni. Non era un lavoro facile e ne erano consapevoli; spesso imprecavano contro il datore di lavoro sostenendo che quella fatica da asini fosse più adatta ad extracomunitari, molto meno pretenziosi a livello remunerativo. Capitava che, a volte non riuscissero a terminare le loro mansioni, così quando erano allo stremo delle forze, lasciavano il lavoro in sospeso per riprenderlo il mattino successivo. E così quel mattino si accingevano a terminare la raccolta iniziata il giorno prima, ma qualcosa di incredibile apparve dinanzi ai loro occhi. Lorenzo si rivolse prima a Vittorio: «Vittò, chi ha riempito questi due cassoni?» «Io no di certo Lorè, ieri manco sono venuto a lavorà. Chiedi a Carmine e Michele!». Interpellati gli altri due amici, anche questi ultimi negarono qualsiasi responsabilità in merito a quell’operazione. Ma quei due cassoni non furono gli unici ad essere stati riempiti a dovere; di lì a qualche metro, erano accatastate altre cinque grandi ceste di vimini colme di pomodori San Marzano, colti e ripuliti da ogni residuo di terreno e arbusti. Lorenzo si avvicinò ad una di quelle ceste e notò ai suoi piedi un oggetto sporgente. Non era ben chiaro cosa fosse perché ricoperto di zolle bagnate e qualche pietra. L’uomo si piegò in avanti per metterlo a fuoco e gli parve di scorgere una scarpa, una vecchia scarpa con la suola usurata e la gomma ormai deformata dalla calura estiva. «Vittò, vieni un po’ qui. Di chi è sta scarpa? La tua?». Vittorio rispose al richiamo del compagno, gli si avvicinò guardando anche lui nel punto indicatogli da Lorenzo. «Lorè ma tu stai male! Qui non c’è proprio niente. Non vedo niente, ma che stai a ddi’?». Improvvisamente il cielo terso di quella mattina calda di inizio estate, si riempì di nubi pregne di grigio, basse e minacciose, gonfie di pianto. E infatti di lì a poco, il cielo iniziò a versare stille pesanti, goccioloni alla stregua di lacrime di dolore per qualcuno o qualcosa che nessuno aveva visto ma che, ognuno, avvertiva come fardello sul proprio cuore.


Il titolare dell’azienda agricola di pomodori era un uomo distinto sulla quarantina. Viveva non lontano dalla sua impresa in un villino grazioso costruito in legno col tetto spiovente ed un ampio giardino ricco della più svariata vegetazione, compreso naturalmente, un orticello familiare nel quale si dilettava a coltivare anche altri ortaggi, oltre i suoi adorati pomodori. Era sposato con Valeria, una donna bellissima e molto più giovane di lui che da qualche mese stava vivendo le emozioni contrastanti e gli umori ballerini legati alla gravidanza.  Era al quinto mese e come la maggior parte delle gestanti, si era iscritta ad un corso di ginnastica dolce preparatoria al parto. Esigeva ad ogni incontro, la presenza anche di suo marito perché giustamente convinta che il momento del travaglio sarebbe arrivato per entrambi. «Luca sei pronto? Tra mezz’ora dobbiamo essere in palestra. Ricorda di prendere il telo e una bottiglia d’acqua per favore. Oggi faremo esercizi di respirazione se non sbaglio.» «Sì Valeria, dammi solo un secondo e sono tutto tuo e… di nostro figlio» rispose non troppo convinto e abbastanza titubante, il giovane imprenditore. Non sembrava essere ancora pronto per diventare padre, aveva delle remore ed insicurezze cui ci ha abituati tristemente la società odierna, che cercava di nascondere all’occhio vigile di sua moglie. Ma doveva andare, non c’era alternativa. 

Quando arrivarono al centro ginnico, Luca si guardò attorno. Solo pancioni dilatati e donne rotonde che parlavano tra loro confrontandosi sulla  gestazione e scambiandosi informazioni intime di natura ginecologica. D’un tratto un’istruttrice vestita con una tuta grigio chiaro chiamò tutti i partecipanti ad accomodarsi in sala; dieci tappetini furono adagiati sul pavimento a formare un gran cerchio, e su questi le future mamme si sedettero con delicatezza, mentre i rispettivi mariti furono invitati a mettersi in ginocchio alle loro spalle e a posizionare le mani sul ventre delle mogli, in una sorta di abbraccio da dietro. Il primo esercizio fu di respirazione. Luca sperimentò quale fondamentale aiuto poteva essere per una donna gravida, il proprio compagno. L’istruttrice spiegò che gli uomini potevano praticare alle mamme anche una serie di massaggi, specie nella zona lombare soprattutto in fase di travaglio, o essere di supporto anche semplicemente stringendo loro la mano o sussurrando frasi dolci e tenere. E fu proprio mentre percepiva queste ultime informazioni dall’istruttrice che Luca, iniziò ad avvertire dei lievi malori. Il fiato gli si fece corto, una vampa di calore lo avvolse come fosse un ramoscello tra tizzoni ardenti. Poi le sudorazioni fredde sopraggiunsero a spegnere quel fuoco. Si fece pallido, guardò dinanzi a sé e ciò che vide lo lasciò attonito. «Valeria, dobbiamo fare qualcosa, c’è una donna incinta che sta male…» sussurrò in un orecchio a sua moglie. «Cosa? Luca che hai detto? Non ho capito bene, parla più forte per favore». «Ti dico che quella donna seduta difronte a te, sta male, guardala! Si dimena come se qualcosa le stesse tirando le gambe, come se sprofondasse nelle sabbie mobili. Dobbiamo aiutarla Valeria! Porta anche lei un bambino in grembo. Anche lui rischia!.» «Luca ma che razza di scherzo è questo? Sei completamente rimbecillito? Ti sembrano cose da dirmi ora? Vuoi spaventarmi? Sei un idiota! Ho bisogno di essere tranquillizzata da mio marito, non terrorizzata!» rispose Valeria furiosa per quel discorso strano e fuori luogo di suo marito. 
«Valeria, ti prego, guarda anche tu davanti a te, come fai a non accorgerti che quella giovane donna sta…sta morendo! Se nessuno la aiuta non sopravviverà!» e mentre pronunciava queste parole di pura disperazione e l’istinto di alzarsi a soccorrere quella donna in pericolo cresceva a dismisura, allo stesso tempo si sentì sempre più inchiodato al pavimento, immobile e rigido come marmo. Gli occhi spalancati, le mani madide di sudore, il collo inflessibile che pulsava a gran velocità. Fu uno schiaffone di Valeria a smuoverlo da quella posizione statica, ma a quel punto fu troppo tardi. Valeria si alzò dal tappetino, lasciò la sala sotto gli occhi stupiti delle altre gestanti e sbatté la porta alle sue spalle lasciando solo l’eco del suo pianto nevrotico. Luca si sollevò a sua volta da terra, chiese scusa a tutti i presenti e seguì sua moglie in quella fuga disperata. Correndo scalzo per il corridoio rincorse Valeria che era già per strada davanti all’automobile, impaziente di salire a bordo e tornare a casa.
Proprio in quel momento un tuono fragoroso rimbombò sulle loro teste e il cielo si rifece plumbeo, come qualche ora prima sui campi di pomodoro. Ancora pioggia, pioggia scrosciante e violenta, pioggia che rigava il manto stradale trasformandolo in mare informe, torbido, nero, fangoso, colmo di rifiuti inghiottiti dai tombini stradali.

Quella fu una notte insonne per molti. Tommaso, Lorenzo, Vittorio, Michele, Luca e Valeria non chiusero occhio. Pensavano e ripensavano a quegli attimi di smarrimento e confusione che avevano vissuto durante il giorno. La luna splendeva dipingendo affreschi cristallini sulla superficie del mare che, dopo il forte temporale, ora tornava calmo nascondendo nelle sue viscere un mondo spettrale e ignoto, forse non troppo ignoto, agli esseri terrestri. 
Ma qualcuno forse non sa che c’è sempre un passaggio segreto che dagli abissi marini conduce alla terra ferma. E quella notte il passaggio fu percorso a ritroso, dalla terra al mare, da alcune anime gonfie d’acqua, parvenze di corpi che avevano perso tonicità, bocche afone che avevano smarrito da qualche parte urla di paura, richieste di aiuto, la voce della vita, la stessa vita che avrebbe potuto donar loro il diritto alla felicità.

 Il primo della fila era il piccolo Olu, un bimbo algerino che sognava di frequentare la scuola. Era partito con la sua mamma e il suo papà a bordo di un peschereccio alla volta dell’Italia con l’inconsapevolezza di un bambino di sei anni ma con la chiara idea di voler imparare a leggere e scrivere perché la sua famiglia gli aveva detto quanto fosse meravigliosa quella esperienza e quanti amici avrebbe conosciuto. La sua leggera anima ci era entrata in quella classe, ci andava ogni giorno senza perdersi nemmeno una lezione fino alla fine della quinta elementare.  Peccato che nessuno potesse vederla. Al piccolo Olu era piaciuta moltissimo l’atmosfera in classe, aveva imparato la lingua italiana, la storia e la geografia ed era abile nei problemi di matematica. Avrebbe voluto stringere amicizia con tutti i suoi compagni, specie con Tommaso che gli sedeva accanto.

Dietro Olu, procedeva a passo lento e un po’ claudicante per via di una scarpa smarrita, il giovane Nakia, nato e cresciuto in Sudan fino all’età di 25 anni. Poi, per sfuggire alla fame e alla povertà e poter aiutare in qualche modo le sue sorelline minori e sua madre, aveva deciso di attraversare la grande distesa azzurra del mare, alla ricerca di un qualsiasi lavoro che potesse garantirgli il necessario per vivere. Aveva in mente di lavorare per un’azienda agricola, raccogliere i frutti della terra e poi magari, un giorno creare lui stesso una piccola impresa agroalimentare in un luogo pacifico, su un fazzoletto di terra che fosse con lui benevolo e accogliente. Aveva tanta forza fisica, era giovane e muscoloso, non aveva paura dell’arsura estiva sulla pelle, già per natura, resistente ai traumi solari. E così, ogni giorno Nakia percorreva con leggerezza quel campo di pomodori e svolgeva il suo lavoro in modo magistrale, pieno di buoni propositi per un futuro inarrivabile.

Per ultima nella fila, mentre il passaggio segreto si faceva sempre più ripido verso il fondale marino, camminava a fatica Amina, una donna libanese di 35 anni, in dolce attesa. Il suo pancione era davvero enorme, il suo bimbo nuotava all’interno mentre lei nuotava perennemente all’esterno. Amina desiderava dare alla luce il suo bimbo in un mondo di civiltà, prosperità, rispetto per le donne, e garantirgli una vita semplicemente serena ed umana. Era piena di eccitazione per quella nascita e voleva prepararsi al meglio a quell’evento. Dopo essersi imbarcata sullo stesso scafo del piccolo Olu, due volte a settimana si recava ad un corso preparto, assieme a molte altre donne gestanti, per imparare soprattutto a respirare bene durante la nascita di suo figlio. Nell’ultima lezione però, aveva avvertito delle fitte fortissime e per quanto respirasse seguendo le indicazioni dell’istruttrice, si sentiva soffocare. Era come se l’aria che inalasse e poi buttasse fuori, fosse schiacciata da un liquido peso insostenibile per i suoi polmoni. Aveva provato a chiedere aiuto ad un uomo inginocchiato difronte a lei assieme a sua moglie,  ma poi, per non sembrare troppo invadente, aveva desistito e deciso di andar via dalla lezione rimandando ad una data indefinita la sua respirazione.

E’ strano come le assenze, a volte possano pesare così tanto sulle coscienze e sulle vite degli esseri umani. Eppure un’anima dovrebbe essere volatile, impercettibile, evaporabile. Sarà che alcune hanno bevuto così tanta acqua da diventar pesanti come zavorre. Infine, ci sono anche anime che nel loro distacco dal corpo, hanno subìto un doppio oltraggio: hanno inghiottito tanto mare e sono state, a loro volta, inghiottite da esso.

Su molti fondali marini vivono queste ultime che, di tanto in tanto, vengono a far visita agli uomini vivi, magari proprio gli stessi che hanno negato loro l’accoglienza.

I protagonisti della storia:
Olu : inghiottito
Nakia: inghiottito
Amina: inghiottita
                                                                                                                                                                          Mara Tribuzio
























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