"Il bene mio" recensione




Il bene mio

2018 ‧ Film drammatico ‧ 1h 34m
Data di uscita: 5 settembre 2018




Chi è Elia?

E’ un uomo totalmente innamorato della sua terra come lo è di sua moglie e come sempre lo sarà anche quando quest'ultima si farà alito di vento, brivido addosso, abbraccio avvolgente nei sogni di Elia.

Quello che Elia trasuda è un attaccamento alle proprie origini, ai propri natali ma anche alle proprie ceneri.

E sono proprio la cenere e la polvere a dominare la scena, in questo meraviglioso film intitolato “Il bene mio” del regista (e soprattutto caro amico) Pippo Mezzapesa. 

Caro Pippo (mi concedo una parentesi di dialogo diretto con l’autore), in questa pellicola sei riuscito persino a  dar  voce alla polvere, alla sua forza di gravità che risucchia verso il basso (“eccome se si sente…”), ai crolli e al dolore che questi ultimi possono provocare quando sotterrano  la vita.

Ieri al cinema, uscendo dalla sala, origliavo i commenti degli spettatori affianco e dietro me. Quasi tutti con le lacrime agli occhi dicevano : “Bellissimo, mi ha commosso”.

Ed è stato così anche per me. La storia di Elia, interpretata da un sublime Sergio Rubini, ha smosso emozioni, ricordi, nostalgie, dolore ma anche voglia di conservare e custodire la nostra memoria storica.

Il film si ispira ad un triste evento realmente accaduto (di cui non parlerò) causato da un terribile sisma in un piccolo paesino rurale che, nella pellicola di Pippo, si chiama Provvidenza.  Ed anche la scelta di questo nome non è casuale. Se da un lato questa parola ci rimanda all’ideale manzoniano di provvidenza quale  “benedizione”, “mano di Dio”, dall’altro, essa stride nelle nostre orecchie quale beffa e ci spinge a chiederci dove sia, o sia andato a finire, l’aiuto di Dio o il cristiano premio finale dinanzi al crollo di quel paesino e delle speranze future di donne, uomini e soprattutto bambini, che non hanno avuto la possibilità nè il tempo di crescere.

Ma sarà proprio Elia, con il suo profondo Amore per quella terra brulla, con la sua generosa gelosia (è un ossimoro efficacissimo a mio avviso) per quelle strade inerpicate alla roccia, i suoni e i profumi che esse ancora sprigionano, a spiegarci  il significato profondo della parola Provvidenza: continuare a credere e ad avere il coraggio di guardare avanti senza dimenticarsi, però, di voltarsi indietro, al passato che ci appartiene, che  parla di noi, che ci rende più umani, più consapevoli e sereni. 

C’è chi al dolore reagisce con la volontà di dimenticare, spazzare via tutto, murare il ricordo con calce e pietre di tufo, “fottersene” di tutto e tutti e continuare a vivere. E c’è invece Elia che per continuare a vivere, ha bisogno di ricordare, urlare a gran voce “sei tu? Dimmelo!”, abbattere a mani nude il muro dell’oblio.

E soprattutto ha bisogno di conservare i ricordi all’interno di oggetti, cianfrusaglie che per molti non hanno alcun valore, ma che invece, per Elia, intento a trasportarli nel suo carrello del “guadagno” e non “della spesa”, sono preziose testimonianze di vita, di identità, di appartenenza ad una comunità, ad una famiglia che vive ancora nella sua memoria del cuore.


Poetica la scena della folata di vento che soffia in aria i disegni di alcuni piccoli alunni, quasi a spargere sorrisi colorati per combattere la desolazione circostante. E poi c’è un altro sorriso che non si vede nel film perché nascosto…forse sotto un banco, ma incancellabile nella sua fuggevolezza e brevità, ed è in quell’immagine che lo spettatore coglierà l’intero intento dell’opera di Pippo.

Vorrei scrivere molto e molto di più, ma il desiderio di inculcare nei lettori di questa pagina la curiosità di andare al cinema a guardare “Il bene mio”, è più forte della mia tentazione di parlarne.

Consigliato? Assolutamente sì.

E tra i motivi (moltissimi), vi è il lirismo delle scelte musicali, sceniche, paesaggistiche, ci sono i dialoghi, la cadenza e l’accento di Sergio Rubini, Dino Abbrescia, Teresa Saponangelo, Francesco De Vito e di tutti gli altri attori e comparse, che risuonano piacevolmente familiari a noi pugliesi e ci fanno avvertire ancora di più quel BENE e quella vicinanza affettiva ai personaggi, e soprattutto quel senso di reale appartenenza ad una terra meravigliosa e antica.

"Antico" non è sempre sinonimo di superato e rottamabile.

Questo film ci insegna che il passato non si può e non si deve cancellare perché ci serve  a rinnovare noi stessi, dare un senso al presente, ripercorrere con maggiore maturità sentieri già percorsi. 

Lodi a Pippo e ad Antonella Gaeta e a tutto il cast per questa preziosa opera.





Mara Tribuzio


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