L'arco della Meraviglia a Bari


L’arco della meraviglia





Nel  XVI secolo la Terra di Bari era una piccola e vivace comunità appartenente al potente Regno di Napoli di cui, tuttavia, costituiva una parte marginale sul piano economico e politico. Di fatto, le decisioni più importanti ad ogni livello, ed i ruoli istituzionali più prestigiosi, si concentravano principalmente nella capitale, Napoli. Le funzioni pubbliche ed amministrative a Bari erano ricoperte dai rappresentanti di poche e circoscritte oligarchie di nobili e proprietari terrieri che imponevano tasse insostenibili per le famiglie più povere, si lasciavano spesso corrompere da ancestrali forme di tangenti, causavano il malcontento popolare che spesso sfociava in piccole rivolte cittadine. A ciò vanno aggiunte le continue carestie e pestilenze e naturalmente, i frequenti assalti dei Saraceni dal mare che depredavano e devastavano la città.

E’ in questo contesto cittadino un po’caotico che cercavano di convivere senza troppi attriti, ricche famiglie patrizie dai nobili natali ma in lenta decadenza, mercanti commercianti medici e avvocati di una vivace borghesia in ascesa, e povere famiglie di contadini  pescatori e pastori che lavoravano notte e dì per produrre cibo a sufficienza per l’intera comunità.
Le famiglie più ricche vivevano in case ampie e luminose con finestre grandi che s’affacciavano generalmente su piazze importanti o da cui era ben visibile il campanile di qualche chiesa. Rigogliose fioriere e antichi vasi di porcellana ornavano i loro balconi, soffitti alti e volte a crociera affrescate con scene bibliche e soggetti angelici, sovrastavano ogni ambiente dell’abitazione. In casa inoltre, a parte i membri della famiglia, viveva anche la servitù, cui era riservata un’apposita soffitta collegata acusticamente agli ambienti sottostanti, da lunghe cordicelle che reggevano delle campane appese a un muro della soffitta. Ad ogni scampanata del padrone, la serva o il servo, doveva scendere immediatamente al piano inferiore ed eseguire l’ordine ricevuto.

Poi c’erano le abitazioni delle famiglie più indigenti. Più in basso si andava nella scala sociale, più in basso si andava, letteralmente, a livello strutturale ed edilizio: cantine, seminterrati, sottani, modeste stanze uniche ricavate sotto il piano strada dove le finestre, più che abbaglianti, erano abbagli...della mente, la luce era quella delle candele e l’umidità faceva da padrona. Un unico angusto ambiente dove vivevano anche sei o sette persone che dormivano sullo stesso letto, sedevano attorno alla stessa tavola e si muovevano con accortezza per non inciampare nello stesso ed unico vaso da notte.


 In un grazioso vicolo della città antica, al primo piano di una palazzina in marmo e laterizio, viveva una modesta famiglia barese composta da madre, padre e un figlio giovinetto di 18 anni. Si trattava della famiglia Mangiafava, di umili origini, che tuttavia, grazie all’intraprendenza e al duro lavoro del suo capofamiglia, Don Peppino Mangiafava, ebanista e indoratore, era riuscita a risollevarsi economicamente negli anni e a riscattarsi un po’anche da quel cognome. Indoratori ed ebanisti infatti, a quel tempo, erano molto richiesti in quanto produttori di oggetti di lusso per le case dei nobili e le chiese.

La signora Mangiafava, Donna Tettella, oltre ai mestieri di casa, impiegava gran parte delle giornate in lavori di sartoria a cucire e ricamare, foderare gonne, rifinire vestiti femminili con orletti e nastrini cercando di accontentare ogni capriccio di quelle arroganti signore della vecchia nobiltà barese, troppo attente a impreziosire il proprio aspetto per accorgersi della loro lenta ma graduale estinzione.
E poi c’era Nicola Mangiafava, unico figlio dei due coniugi, che da poco aveva compiuto la maggiore età, ma già da quando aveva 11 anni, lavorava affianco al padre nella sua falegnameria. Nicola era molto abile a lavorare e decorare il legno perché aveva doti creative e artistiche di gran lunga superiori a quelle del padre. Nicola era anche un giovine molto avvenente e affascinante, tutte le fanciulle del vicinato non riuscivano a staccagli gli occhi di dosso ogni volta che lo vedevano “sfilare” per strada con qualche trave sulla schiena abbronzata o con le pesanti cassette di attrezzi da lavoro che gli facevano gonfiare i muscoli delle braccia. Gli occhi verdi e la riccioluta chioma scura sempre scomposta dal vento, facevano il resto:

«Oh madonnina del Carmine, che fustacchione quel Nicola, me lo porterei a casa e lo delizierei con le mie doti culinarie!»
«Giuseppina ma che stai a dire! Quello non ti vede nemmeno col binocolo! Tu sei troppo vecchia per lui! A quello gli piacciono le  freschelle come me. Sono certa che se lo invito a fare un giro in piazza Ferrarese, mi offre pure un gelato o un  panzerotto e poi mi mette il braccio intorno ai fianchi mentre camminiamo. Io c’ho il fianco largo e comodo.»
«Iè’ assà u dann a vù![1] State sognando! Lo sanno tutti che Nicola non ha occhi e orecchie che per Matilde Meravigli, la sua dirimpettaia, la figlia piccola di Lorenzo Meravigli il milanese. Sentite a mmè, lassàt pèrd pròprie ca stàt frcàt a ciùcce![2] »


Erano questi i pettegolezzi che echeggiavano giornalmente nell’aria tra le ragazze baresi, attorno al bel giovine muscoloso e attraente. Difatti le voci erano veritiere: il bel Nicola era follemente innamorato di una splendida fanciulla di nome Matilde che viveva in un’antica abitazione patrizia proprio difronte al suo palazzo. Aveva 16 anni ed era la secondogenita di Susanna e Lorenzo Meravigli, coniugi lombardi trapiantati a Bari per motivi di commercio. Lorenzo Meravigli era da sempre stato venditore di tessuti pregiati e col tempo a Bari si era fatto un nome ed un’ottima reputazione. Tra i suoi clienti vi erano importanti esponenti della politica locale, dell’alta borghesia e della nobiltà, persino letterati e chierici e pure il vescovo dell’arcidiocesi di Bari-Bitonto. La famiglia Meravigli era tanto tenuta in considerazione dalla Bari bene, da ottenere nel tempo lo status di famiglia nobile. Donna Susanna Meravigli, moglie di Lorenzo, aveva realmente illustri natali, discendeva dalla famiglia Sforza di Milano, in particolare da quel Galeazzo Maria, duca di Milano dal 1444 al 1476. E per rammentare a tutto il vicinato barese le sue origini ducali, la donna boriosa e arrogante, aveva esposto con vanagloria fuori la porta d’ingresso del loro palazzo, l’antico stemma sforzesco del biscione ondeggiante che ingoia un fanciullo.


Insomma, una famiglia attenta al protocollo, alle buone maniere, al rispetto delle gerarchie e della stratificazione sociale. La loro bella figliola Matilde, 16 anni appena compiuti, un giorno sarebbe andata in moglie ad un giovane rampollo della nobiltà barese, ricco e benestante come lei, né più né meno (beh, se fosse stato più ricco, tanto meglio!). Erano queste le prospettive della famiglia Meravigli per la loro secondogenita. Anche perché con la primogenita, avevano fatto un buco nell’acqua, avendo quest’ultima preferito la vita monastica a quella mondana gaudente e convenzionale.

Peccato che la realtà dei fatti, si allontanava di gran lunga dai propositi dei coniugi Meravigli. La bella Matilde ricambiava infatti l’amore di Nicola Mangiafava e nel suo cuore non avrebbe potuto esserci nessun altro. I due erano fidanzati segretamente perché mai e poi mai la famiglia della ragazza avrebbe potuto approvare un amore così socialmente sproporzionato, un legame tanto sconveniente e imbarazzante agli occhi della pubblica opinione.

E così di giorno, Matilde si accontentava di guardare dal balcone del suo palazzo, il suo amato Nicola mentre questi per strada trasportava travi e assi in falegnameria. Gli sorrideva innamorata e lo salutava con la mano mandandogli furtivi baci da lontano, facendo attenzione che sua madre non la scoprisse. E lui, di rimando, le lanciava strizzatine d’occhi o le fischiettava motivetti d’amore pregustando il momento in cui l’avrebbe abbracciata e riempita di baci nei loro nascondigli segreti.
I due amanti in verità, non avevano molte possibilità per incontrarsi se non all’imbrunire. 

D’inverno il loro rifugio d’amore era il retrobottega del panificio Fiore il cui proprietario, complice in tutto della tresca proibita, offriva loro riparo da occhi indiscreti, per breve tempo. Si trattava a volte di pochi sfuggenti minuti in cui i due piccioncini tubavano parole d’amore e si promettevano il cielo e la luna tra profumi di focacce sfornate, aromi di lievito di birra e pomodori pachino, fragranze volatili di strutto e olio di oliva. In primavera e in estate, invece, i due riuscivano a trascorrere assieme qualche ora in più, perché in giro c’era più vita e ci si poteva confondere tra la folla oppure osare addirittura allontanarsi con la bicicletta fino alla spiaggia di Pane e Pomodoro.[3]

Tuttavia, non sempre le cose andavano per il verso giusto. Più di una volta gli incauti ragazzi furono sorpresi da occhi indiscreti in atteggiamenti mielosi e movenze troppo sinuose. Un giorno fu il pescatore del molo di San Nicola a trovarli avvinghiati l’uno all’altra proprio nella sua barchetta di legno. Non vi dico che colpo, pover’uomo, gli prese per lo spavento. Quasi cascava in mare alla vista di quattro gambe e quattro braccia intrecciate tra loro come tentacoli di un polpo :«Sciatavìnn da dò! Uagliòò, pigghie la pcnènn e vattìn và, ca mò t’ia dà nu tuzze! Mocc a vù!»[4] .

In un’altra occasione, fu la vicina di casa di Matilde, l’odiosa e pettegola Donna Rosina, a scoprire la fanciulla montare sulla bicicletta di Nicola in direzione del mare e, senza alcuna esitazione, andò ad informare dell’accaduto Donna Susanna Meravigli. Quest’ultima non poté credere alle sue orecchie e continuava a ripetere all’amica: «Sei sicura Rosina? Proprio il figlio del falegname? Non ti sarai sbagliata?» «Te lo giuro Susanna! Era proprio lui, se non ci credi andiamo a chiedere direttamente a Peppino Mangiafava se suo ora figlio è con lui in falegnameria» «Parlare con un Mangiafava? Figurati se mi abbasso a tanto. Aspetterò Matilde a casa e mi darà spiegazioni lei. Adesso facciamo finta di nulla, non vorrei destare eccessiva preoccupazione in pubblico. Non è conveniente per una donna d’alto rango mostrarsi troppo turbata o accigliata».

Di lì a un’oretta circa, la giovane Matilde rincasò con aria disinvolta e felice. Era stata con il suo grande amore a fare il bagno al lido di San Francesco. Avevano nuotato come delfini dispettosi spruzzandosi acqua a vicenda, si erano rotolati sulla sabbia e avevano mangiato una granita al limone ignari del triste destino che li attendeva.
Donna Susanna, non appena Matilde varcò la porta d’ingresso, la afferrò per un braccio e la condusse con forza in camera sua. La costrinse a dirle la verità su quella presunta tresca col figlio del falegname. Matilde, che inizialmente negò tutto, alla fine, a causa dell’opprimente terrorismo psicologico esercitato da sua madre, cedette, e a polmoni spiegati e gran voce urlò: «Ebbene sì! Io e Nicola Mangiafava stiamo insieme! Ci amiamo e non ci importa nulla della tua approvazione o meno! Voglio stare con lui, solo con lui!»
Donna Susanna  rabbrividì nell’ udire tali scelleratezze venir fuori dalla bocca di sua figlia. Poi lanciò un’occhiata alla finestra per sincerarsi che fosse serrata e che nessuno per strada avesse potuto origliare. La sua reazione fu glaciale. Non disse nulla, non proferì parole di replica o rimprovero. Prese la chiave dalla toppa della porta, uscì dalla camera di Matilde, chiuse la porta a chiave dall’esterno e si diresse in sala da pranzo a governare i lavori domestici della servitù, come nulla fosse.

Matilde, chiusa in camera, si adagiò sul letto e scoppiò in un pianto lunghissimo e singhiozzante, interrotto di tanto in tanto da parole d’amore e di nostalgia per il suo Nicola. Quando la crisi di pianto le si fu placata, la fanciulla raggiunse la finestra e guardò per strada. Era buio e non c’era più nessuno nel quartiere. Aprì le imposte della finestra, si posò una mano al petto, si schiarì la voce e iniziò a pronunciare versi noti al mondo intero o quasi…



Oh Nicola Nicola, perché sei tu Nicola!?
Rinnega tuo padre, rifiuta il tuo nome, o se non vuoi, giura che mi ami e non sarò più una Meravigli.
Solo il tuo nome è mio nemico: tu sei tu.
Che vuol dire "Mangiafava"?
Non è una mano, né un piede, né un braccio, né un viso, nulla di ciò che forma un corpo. Prendi un altro nome.
Che cos'è un nome? Quella che chiamiamo "focaccia"[5] anche con un altro nome avrebbe il suo profumo.
Rinuncia al tuo nome, Nicola, e per quel nome che non è parte di te, prendi me stessa.


E fu così che trascorsero settimane intere di puro dolore per Matilde e per Nicola, non più liberi di incontrarsi, ostacolati nel loro amore da motivi di casato, stirpe, discendenza, parole che alle orecchie dei due ragazzi suonavano assurde e insensate.
Matilde espiò il suo periodo di punizione rinchiusa in camera, ma anche dopo, preferì restare lì isolata da tutti. Senza Nicola nulla avrebbe avuto più senso. La bella Matilde aveva perso la voglia di vivere. Nicola, dal canto suo, aveva perso la parola. Si recava ogni giorno al lavoro alzando lo sguardo verso quella finestra sperando di incrociare gli occhi della sua amata, ma nulla vedeva se non imposte sbarrate come celle di una prigione. Il padre di Nicola, un giorno gli disse: 

«Figlio mio, non puoi continuare così. Devi reagire. Purtroppo quella gente ci guarda dall’alto e ci reputa alla stregua di topi di fogna. Non permetteranno mai alla loro figlia di frequentare il figlio di un artigiano! Fattene una ragione figlio mio. Ci sono tante altre ragazze sulla terra!» 

«Ma padre!» replicò il ragazzo «Io l’amo! Non rinuncerei mai a lei solo per il nome che porto. E se questo nome mi separerà da lei, allora d’ora in avanti non sarò più un Mangiafava!»

Don Peppino Mangiafava dinanzi a quelle parole colme di passione di suo figlio, si commosse profondamente. Gli sorrise e dopo un lungo silenzio, così gli parlò: «Figliolo, grande e nobile è il tuo animo come pure il tuo coraggio. Sei meritevole d’amore perché a tua volta sai esprimerlo e trasmetterlo senza indugi e paure. Sarai premiato per questo. Sono certo che l’Amore ti ripagherà»

Quella notte Nicola non chiuse occhio. Il suo pensiero era rivolto costantemente a Matilde, ai suoi baci e alla sua voce soave che sentiva risuonare nella mente. La sua amata era solo a due passi da lui, le loro finestre erano l’una di fronte all’altra, eppure un abisso li divideva, l’abisso dell’ingiustizia. Cercava di escogitare piani e sotterfugi per poter tornare ad abbracciarla a sé e, tra un pensiero ed un altro, si addormentò stanco e provato.

All’indomani Nicola si affacciò alla finestra della sua stanza. Non poté credere ai suoi occhi: un passaggio simile ad un ponticello si ergeva sopra l’arco che separava la sua abitazione da quella di Matilde. Era una sorta di via di transito delimitata da una sottile ringhiera che gli permetteva di raggiungere a piedi la finestra della sua amata. Decise di provarlo. Se fosse stato un sogno, di certo si sarebbe svegliato con un bel volo di cinque metri sul lastricato. E invece quel ponte resse. Era reale. Quando fosse stato costruito e chi lo avesse progettato, lo ignorava. Ma una cosa era certa: nell’arco di una notte, qualcuno aveva eretto una passerella che consentiva di unire di nuovo due cuori separati. Da quel momento Nicola e Matilde poterono vedersi ogni notte scavalcando l’uno la finestra dell’altro a giorni alterni e dormendo stretti stretti nell’unico vincolo possibile entro il quale si possa vivere liberamente: l’Amore.

Ancora oggi su una parete del suddetto Arco sito a Bari Vecchia in Via Zonnelli, si trova affissa un’antica targa di ottone su cui sono riportate le seguenti parole:


Città di Bari
ARCO DEI MERAVIGLI
Questo arco è famoso perché la
leggenda popolare racconta che esso fu
costruito in un’unica e sola notte, perciò
detto “della meraviglia”, per consentire
il passaggio da una finestra a quella
difronte di due innamorati colà abitanti.
In effetti esso collega delle abitazioni
appartenute all’antica famiglia
Meravigli di origine milanese,
stanziatasi a Bari nel XVI secolo, dalla
quale l’arco prende il nome.





 Mara Tribuzio

fonti:




[1] Espressione gergale barese che significa “E’ grave la situazione!” per indicare la grave stoltezza delle ragazze di Bari vecchia, illuse di poter piacere a Nicola.
[2] Altra tipica espressione del vernacolo barese che vuol dire “Lasciate assolutamente perdere perché  siete idiote in quantità considerevole” sempre riferito alle ragazze del borgo.
[3] Trattasi di uno stabilimento balneare pubblico che si trova sul lungo mare della città di Bari. Naturalmente è un luogo che non esisteva nel tempo del racconto, ma qui l’autrice vuole divertire il lettore con richiami ambientali e topografici a lui familiari, così come ha fatto in precedenza nominando il panificio Fiore.
[4] “Andate via di qua! Ragazzo, prendi la ragazzina e vattene, altrimenti ora ti do una testata! Accidenti  a voi due!”
[5] Nella versione originale di Shakespeare è “rosa”

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